
Vincere il buio e trasformarlo in oro
di Marisa Colibazzi
Qualcuno potrebbe dire che le è stato tolto qualcosa, invece lei è convinta che qualcosa le è stato donato. Quasi spiazzano le parole di Assunta Legnante, campionessa paralimpica nel lancio del peso che, dal 2010 ha cominciato a vedere spegnersi la luce che la circondava e dal 2012 ha dovuto prendere atto del fatto che non si sarebbe più riaccesa.
<Sono una ragazza napoletana – si racconta -, ho vissuto a Napoli fino a 17 anni. Giocavo a pallavolo, ma come succede spesso in tante città, c’era la passione per il volley ma non c’era nessuna squadra e la famiglia non ne voleva sapere di farmi andare fuori regione per praticare questo sport>. Un’adolescenza normalissima, una inclinazione per lo sport che ha trovato sfogo nei vecchi (e rimpianti) Giochi della Gioventù. La Legnante ha cominciato a conoscere l’atletica leggera e il lancio del peso. <In realtà, facevo tutto, correvo, saltavo, lanciavo fin quando, anno dopo anno, in terza media, sono arrivata alla finale dei campionati studenteschi>. Da lì, è stato tutto un crescendo e con la convocazione alla prima nazionale giovanile c’è stata la svolta. <In quel momento ho capito che quella sarebbe stata la mia strada sportiva anche se a me – confida – detto in tutta sincerità, il getto del peso a me non è mai piaciuto>. E meno male che non le piaceva.
Arrivano i primi risultati e la giovane campionessa comincia ad amare qualcosa in cui riusciva proprio bene e, di pari passo, comincia a puntare sempre più in alto.
Dopo il diploma <mi sono messa a inseguire un sogno: partecipare alle Olimpiadi. A 18 anni, mi sono trasferita nelle Marche, ad Ascoli Piceno dove c’era il miglior allenatore per i lanci del peso e ho realizzato il mio sogno: nel 2008 ero alle Olimpiadi di Berlino>.
E’ solo l’inizio: dai 18 ai 30 anni ‘cannoncino’ Assunta Legnante vince svariate medaglie, realizza un record italiano ancora imbattuto: <Nessuna italiana ha lanciato quanto ho lanciato io in tutti i tempi>.
Tutto procedeva per il meglio, ma il destino l’aspettava al varco, pronto a stravolgerle completamente la sua vita. <Sono nata con un glaucoma congenito. Ho sempre avuto problemi di vista con cui convivevo, senza particolari pensieri.
Nel 2010, una bella mattina mi alzo e mi preparo come d’abitudine: dovevo andare a un meeting a Padova. Con un’amica saliamo macchina e partiamo. Meno male che non guidavo io perché, a un certo punto della giornata, non ci ho visto più. Lì per lì, pensavo di aver perso le lenti a contatto, per cui ho cominciato a cercarle dappertutto, a tastoni, dentro l’auto>.
Non era il caso di proseguire il viaggio: Padova poteva aspettare; la necessità di sapere cosa stesse accadendo ai suoi occhi, no.
<Abbiamo scoperto che l’occhio con il quale ci vedevo di più, si era completamente spento>. La Legnante si sottopone a tanti interventi, per cercare di recuperare qualcosa, anche un solo barlume di luce <ma nel marzo 2012 ho avuto la certezza che sarei rimasta non vedente per tutta la vita>: un pensiero pesante come un macigno, liquidato con noncurante facilità, almeno all’apparenza.
La reazione? <In quel periodo è stata dura. Sono stata una ragazza autonoma fino a 18 anni, ho viaggiato visto e conosciuto gente di tutto il mondo e vedersi spegnere la luce all’improvviso, è dura. Da quel momento dipendi da altri, anche solo per scegliere i calzini dello stesso colore>. Fa male perdere l’autonomia, perdere la possibilità di vedere volti amati, di vedere la propria vita, ma lo fa ancora di più quando, quasi in contemporanea, accade che la mamma viene a mancare. <Così, non ho avuto tempo di pensare ai miei occhi spenti. O pensavo al mio dolore o pensavo alla perdita di mia madre. Alla fine, non ho pensato per niente. Ho continuato a vivere>.
Ma per nessuno può piovere per sempre: <Mentre mi sono capitati questi due fatti bruttissimi, mi è successo qualcosa di molto bello: mi è stato proposto di tornare a gareggiare nel getto del peso, a livello paralitico>. Lo sport lei venuto in soccorso, offrendole la possibilità di rimettersi in gioco, di cimentarsi in nuove sfide e per una donna del carattere della Legnante, questo è stato più che la salvezza.
<La prima domanda che ho fatto, la più scontata: com’è possibile che una ragazza cieca possa lanciare un peso? Mi è stato spiegato come funzionava. Era davvero possibile. Poi ho fatto un’altra domanda: ‘Quant’è il record del mondo?’. La campionessa era davvero tornata.
Il mondo dello sport dei normodotati non l’ha tradita, non le ha voltato le spalle, anzi.
<Sono stata io che l’ho tradito. Cercavo di isolarmi da tutto e tutti e loro lo hanno capito. Hanno rispettato questo mio desiderio che era una mia necessità ma successivamente mi è capitato di incontrare tante persone che si allenavano e gareggiavano con me. L’importante è stato capire che ora non potevo più chiedere di fare tutto da sola>.
E per una donna dal carattere determinato e caparbio come la Legnante, il passo non è stato facile. Ma la forza l’ha trovata proprio grazie al suo carattere.
<Sono una persona che la forza cerca di trovarla interiormente, di non dipendere dagli altri, anche a livello emotivo. Sono quella che dà la forza agli altri e non la cerca per sé. E’ stato tutto semplice, anche se può sembrare strano dirlo. E’ come quando cadi dalla bicicletta e ti dicono di risalirci subito altrimenti non la riprendi più. Io ho fatto così. Non mi sono lasciata prendere dall’ansia che dal quel giorno non avrei più visto un viso, o il sole o il mare>.
La motivazione, la molla che l’ha spinta ad andare avanti?
<E’ vero, sono diventata cieca, ma ora ho gli occhi azzurri> sorride. <La motivazione principale è stata quella di non smettere di vivere. Quante sono le persone disabili, che sono su una carrozzina, che non ci vedono, che hanno un piede o una gamba amputata, che hanno problemi mentali e vivono solo ed esclusivamente dentro casa? Tante. E questo perché per i più, non sono considerate uguali agli altri. Tanti atleti paralitici vogliono questo: vogliono sentirsi uguali. Anch’io volevo sentirmi uguale. Noi atleti paralitici siamo capaci di fare sport e vincere medaglie come tanti altri atleti. La nostra motivazione è non mollare>.
Il viso si apre ad un sorriso divertito quando ricorda alcuni episodi della sua prima paralimpiade, a Londra. <Mi è capitato di assistere a una partita di calcio balilla tra quattro brasiliani non vedenti e non potete immaginare quanti si stessero divertendo. E’ anche capitato che, verso la mezzanotte, io e la mia compagna di stanza, sentivamo delle urla in lontananza ma non riuscivamo a capire di cosa si trattasse. Sapevamo che, nel punto da cui provenivamo i rumori, c’era un campo da calcetto. E nel buio più totale, chi poteva giocare? Solo dei ciechi. Ho cominciato a ridere non ho più smesso. Questo fa capire il senso di chi diventa non vedente però fa sport. Fa capire la voglia e la vitalità che ci mette>.
La mascherina da indossare in gara è obbligatoria. Lei ha scelto di gareggiare con gli occhi di Diabolik.
<Vivendo in Ascoli e avendo avuto la possibilità di tornare a lanciare e di essermi qualificata per le Olimpiadi di Londra, abbiamo deciso insieme a amici ascolani, di fare una mascherina che mi avrebbe contraddistinto, che richiamava la squadra dell’Ascoli che, come me, non mollava mai. E gli occhi di Diabolik hanno avuto un successo incredibile: sono finita anche sulla prima pagina del Times>.
Il medagliere della Legnante è straordinariamente ricco e lei se la ride, soddisfatta: <Dal 2012 non perdo una gara. Cerco anche di perdere, di farlo apposta, ma non ci riesco. Nel 2017 ho fatto un unico lancio, ma ho vinto lo stesso>.
Alla soglia dei 40 anni, c’è ancora spazio per un sogno: Partecipare alle Olimpiadi con i normodotati. Ma sa che la strada, stavolta, è in salita: <Significa fare un lancio e una misura che ti permetta di essere accettata e ci sono tanti problemi burocratici che comunque vanno risolti. Mi accontenterei anche solo di arrivare a Tokyo e fare la mia bella figura>. Non un ripiego, ma un nuovo obiettivo.
Non ha idoli sportivi e il motivo racconta tutto quello che la Legnante è: <Siamo tutti sullo stesso piano, facciamo gli stessi sacrifici. Non ne ho, e non penso di averne mai di idoli, o di volerne>.