
“La vita ti fa accettare i dolori più grandi, ma la scegli sempre, la vita”: Liliana Segre, testimone della Shoah
SERVIGLIANO – 23 aprile 2019
Dovessi evidenziare cosa mi ha colpito della visita a Servigliano (Fm), alla Casa della Memoria e al campo di concentramento (https://fermacarta.net/2021/01/27/il-parco-della-pace-monumento-nazionale-la-memoria-che-non-si-deve-perdere/) di Liliana Segre, senatrice a vita che, a 89 anni, consapevole che la sua è una delle sempre più rare voci che possono raccontare l’Olocausto perché lo hanno vissuto e sono sopravvissute, direi che è stato il calore con cui modulava il tono della voce, pronunciando la parola ‘vita’.
Parlando di vita, la sua voce si addolcisce, si arricchisce di sfumature che sono quasi carezze nell’animo di chi la ascolta e che, nel contempo, trasmettono una forza e un attaccamento spasmodico alla vita.
Nella sua voce c’è la gratitudine, la sorpresa, la gioia per averla avuta, una vita, per aver creato altre vite (i tre figli), da cui sono nate ancora altre vite, quei nipoti che l’hanno fatta decidere che era stata zitta abbastanza, e che era tempo che facesse il suo ‘dovere’: testimoniare la Shoah.
Ho preferito che fosse lei, Liliana Segre, a parlare con la stessa semplicità e umiltò con cui si è rivolta ai ragazzini di Servigliano quando, smessi i panni della senatrice, è rimasta solo una nonna davanti a tanti nipoti. Una nonna che, senza enfasi, con garbo e grande abilità narrativa, racconta una storia da non dimenticare.
<La grande felicità di essere nonna ha permesso a questa donna qualsiasi, che sono io, di diventare testimone. Perché sono stata zitta per tanti anni. Sono stata muta. Non volevo mai sentir parlare intorno a me dell’argomento chiave della mia vita. Finché sono diventata nonna. C’è un senso della vita che continua. Già da te sono nati i figli. Tu, che dovevi morire, che eri destinata al macello, che non avevi speranza, sei viva per caso. Non perché sei stata un’eroina, o qualcosa di speciale. Per caso. Non era il tuo momento di morire. L’hai sfiorata mille volte in una giornata la morte, ma sei rimasta viva.
Le foto salvate
Sei rimasta viva e sei tornata. Una ragazza selvaggia, disperata, che non aveva più la casa, non c’erano più le persone, non c’erano più gli oggetti, né i ricordi. Erano stati portati via anche quelli. Per fortuna, una persona molto cara, molto umile che era stata la nostra cameriera fedelissima, aveva conservato per me le fotografie, se fossi tornata viva, e due anelli della nonna. Le foto sono state decisive nella mia vita, altrimenti non avrei proprio avuto passato, non avrei avuto e più visto l’effigie di quelle persone morte per la colpa di essere nate, non perché avessero fatto qualcosa.
L’orribile prigionia
Ma la vita è importantissima. Noi, da prigioniere, ci trovavamo nella situazione più spaventosa che può esistere al mondo. Non si trattava di essere private solo della libertà, ma di qualunque diritto umano, che voleva dire – e non ho paura di dirlo -, non avere le mutande, non avere la carta igienica, fare i propri bisogni in comune mentre entravano i soldati a prenderci in giro, a guardarci, non avere più le mestruazioni, essere nude davanti ai soldati che dovevano decidere se potevamo ancora lavorare, o no.
La perdita della dignità
In questo modo, la perdita della dignità è totale, perché ti butti sull’immondezzaio per mangiare, tu che eri abituata come tutti, che non eri un animale prima, ora hai la fame che ti rode, che ti mangia dentro, ti fa soffrire, ti fa perdere la testa. Non ti fa pensare a niente altro che mangiare. Quando sei ridotta a quel livello, è come la forza di gravità, quella gravità che ci tiene attaccati alla terra: è quella la stessa forza che c’è nella vita.
Scegliere la vita
E noi, prigioniere così ridotte, abbiamo scelto tutte la vita. Non siamo rimaste vive perché abbiamo scelto la vita. Ognuna ha avuto il suo destino. Per la maggior parte, ci hanno uccise tutte e tutte, anche quelle che stavano per morire, erano disperate di perdere la vita, perché la vita è una cosa meravigliosa, stupenda.
Godere della primavera
Quando vado nelle scuole, invito sempre i ragazzi a godere la primavera. E’ una cosa normale, tutti gli anni fioriscono i fiori, ma quando uno è stato dentro un campo da cui non si vedeva che un altro campo, che fili spinati, con la libertà, scopre improvvisamente, che la natura vince, che fa ogni anno questo miracolo straordinario, che dalla terra brulla escono quei fili d’erba, e dai tronchi escono quelle gemme che si aprono e diventano di quel verde tenero, meraviglioso. A questo non si può rinunciare. E’ la vita che ti prende per mano, ti fa accettare i dolori più grandi, ma la scegli sempre, la vita.
Il ritorno e l’indifferenza
Quando poi, da tanto odio, tanta cattiveria, tanto orrore esci, sei frustrata, sei una donna che non sa neanche riprendere il suo posto nella società cosiddetta civile, quella stessa che ha permesso, voltando la testa dall’altra parte, con indifferenza. Che ha permesso che le mie compagne non potessero più vedermi a scuola, perché era proibito ai cittadini italiani di religione ebraica di frequentare la scuola. Dopo anni da quando sono stata espulsa (avrei dovuto fare la terza elementare), ho incontrato le bambine che erano state mie compagne in prima e in seconda elementare. ‘Ma tu, Segre, dove sei andata a finire? Come mai non ti abbiamo più vista?’. Era l’indifferenza, non la loro, ma delle famiglie che dicevano: ‘Ma cosa importa? Non è qualcosa che tocca a noi, perché ce ne dobbiamo occupare? E’ una cosa degli ebrei’. E nell’indifferenza generale dell’Europa, è successo un genocidio di milioni di persone, uccise per la colpa d’essere nate, non perché avessero fatto qualcosa di male.
Viva per caso
Un genocidio di cui tu credi che sarai vittima, che morirai per questo, e invece sei viva per caso, e ti ritrovi con la forza di gravità che ti ha tenuto in vita. Prima sei magra, uno scheletro, un orrore, piena di accessi, rapata, rasata, tatuata e poi, miracolosamente, torni a Milano dove la gente non ti riconosce. I parenti rimasti hanno quasi un po’ vergogna di te che sei così selvaggia, così diversa dalle altre. ‘Bisogna aver pazienza con Liliana’ dicevano i miei parenti, che erano buone persone, che mi amavano e che io amavo. Non erano i cattivi che io avevo già avuti. Ma non mi capivano. Ci sarebbe voluto uno psicologo, ma allora non usava.
Ritorna la vita
Ma poi la vita riprende il sopravvento. Questa ragazzina sola, decide di riprendere a studiare, e nello studio trova non un conforto, ma una ragione di vita che riprende, perché essere ignoranti è un limite gravissimo. Quando ti appassioni a una materia, a una lettura, a qualcosa che ti apre il cervello, e ti metti d’impegno nello studio e, studi, studi, studi, allora ce la fai.
‘Io so come sei’
Frequentavo il liceo classico e l’estate, tra la seconda e la terza liceo, i miei parenti di origini marchigiane, mi portano al mare, a Pesaro. Non c’ero mai stata, non conoscevo nessuno e sulla spiaggia, in costume, entro in un gruppo del luogo. C’è un giovanotto, che mi piace subito moltissimo, ma ero timida, molto grezza. Io lo guardo, lui mi guarda e mi mette una mano sul braccio sinistro, lì dov’è tatuato il mio numero, e mi dice: ‘Io lo so che cos’è questo numero, perché sono stato un prigioniero di guerra, uno dei 650mila italiani eroici che hanno scelto, dopo essere stati disarmati, di non aderire alla Repubblica sociale, ma di fare volontariamente due anni di lager in Germania. E vi ho viste passare. So cosa ti è successo, so come sei, diversa da tutte le altre ragazze che sono qui’.
Riscoprire l’amore
Da quel momento, non ci siamo lasciati più, e io che non conoscevo più la parola amore, che era finita nel vento di Auschwitz, nella cenere di mio padre e dei miei nonni, ho amato e sono stata amata. E sono stata felice. Una donna presa per mano da questo uomo più grande di me. Mi sono sposata a 20 anni, per cui oggi i miei tre figli sono anziani. Quando lamentano di avere dei disturbi, dico ‘Capisco che siete anziani, ormai, bisogna avere pazienza’. Il mio primo figlio si chiama Alberto, come mio papà.
Nasce la vita
Quando è nata vita da me, che non credevo neanche di poter diventare mamma, beh, si è sciolto qualche cosa di così importante in una donna che non sapeva più piangere e che, vedendo questo neonato, ha pianto, di felicità. Sono stata una sposa felice, una moglie felice, mamma di tre figli.
Il passato come un fardello
Avevo una gelosia, e un egoismo fortissimo per questo passato così pesante, che incombeva sulla mia famiglia, perché il mio braccio tatuato stringeva i miei neonati e i miei figli, appena imparavano a parlare, chiedevano: ‘Mamma, ma cos’è questo numero?’. Io vigliaccamente rispondevo che glielo avrei detto quando fossero stati un po’ più grandi. In realtà, per quanto loro siano molto grandi, questo discorso che mi esce, sia pure sempre prendendomi la testa e il cuore, davanti a persone che non conosco, in famiglia è molto difficile. In realtà non l’ho mai fatto. Ho sempre rimandato. Non sono mai diventati abbastanza grandi per parlarne così. Mi sono protetta da questo passato così pesante. Non volevo parlarne. Volevo essere una moglie, una mamma e una donna qualunque, uguale alle altre, per non pesare sulla mia famiglia, con un passato così tragico. Ho proibito sempre a mio marito e a tutti quelli che conoscevano la mia storia di tirar fuori il discorso.
Una nonna con il nipote
Diventare nonna di Edoardo, 30 anni fa, è stato un processo ancora più importante che diventare mamma, e ho sentito dentro di me, un rimorso tremendo, di una persona che non aveva fatto il suo dovere di testimone. Perché intanto, i negazionisti, negli anni impazzavano, si cominciavano a mettere in forse una infinità di storie, e altri testimoni, che erano sempre meno, cominciavano a non sentirsela più di parlare o a decidere di andare all’estero. Questo gruppetto di vecchie persone, ha cominciato ad assottigliarsi sempre di più.
Testimone per ricordare
Un’altra sopravvissuta, Gotti Bauer, è stata il mio Virgilio, mi ha portato nella selva oscura dei ricordi, mi ha detto: ‘Perché non fai la testimone? Devi farlo’. E io, con i figli grandi, con mio marito che si era adattato ad avere me come moglie, con tutti i miei tabù, ho comunicato in famiglia che lo avrei fatto, non sapevo come e con grande umiltà. Avendo amiche insegnanti, che ancora eroicamente insegnavano, mi sono avvicinata ad alcune di loro, dicendo che dovevo provare, dovevo cominciare, magari con piccoli gruppi. Non sapevo se mi sarei messa a piangere. Così è cominciato. Poi è stato un tam tam. Oggi non posso più vivere senza testimoniare, ovunque mi invitano.
Liliana, nonna e bambina
Sempre di più, diventando così vecchia, ho una grande pena per la ragazzina di cui parlo, quella Liliana di una volta che è anche una mia nipote. C’è un senso di sdoppiamento in me, perché sono io quella di cui parlo, ma sono anche la nonna di quella ragazzina sola, infelice, con tutti i vuoti e tutto l’orrore che ha dovuto vedere. Questo mi pesa sempre di più, perché, mentre parlo, non so più se sono quella, o sono questa.
Senatrice a vita
Quando il presidente Mattarella mi ha ricevuto, mi ha detto: ‘Signora, cosa ha pensato prima di tutto, quando ha saputo della nomina a senatrice a vita?’. Ho risposto: ‘Vede? Io sono vecchia, vecchissima, ma dentro di me sono sempre quella bambina che doveva fare la terza elementare, la cui unica colpa era di essere nata, cittadina italiana, da generazione di famiglia patriota, (mio padre e mio zio, erano stati ufficiali nella seconda guerra mondiale, con mio zio molto fascista, finché non capì quanto era sbagliato) e, quindi, estremamente italiana. Ebbene, io sono sempre quella bambina che si è vista chiudere la porta della scuola e che, 80 anni dopo, si vede aprire la porta del Senato’>.
Marisa Colibazzi
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